torna indietro




LA NASCITA DELL’EGEMONIA AMERICANA

Il mondo attuale è segnato dall’egemonia di un’unica grande potenza, gli Stati Uniti. Non si può comprendere nulla del mondo attuale se non si riconosce questo dato di fatto. Ma tale comprensione è a sua volta subordinata a quella del conflitto mondiale che ha attraversato gran parte del novecento, che a ragione viene denominato “Il secolo americano”. Cioè non si comprende il mondo d’oggi se non si comprende la dinamica e gli esiti del conflitto mondiale 1914-89, durato fra alterne vicende tre quarti di secolo, che ha ridotto progressivamente il numero delle potenze imperialistiche fino a lasciare in campo una sola superpotenza, gli Stati Uniti.

Il conflitto mondiale e l’egemonia americana

Il conflitto mondiale appare come un susseguirsi di guerre locali e generali, di periodi di guerra alternati a periodi di tregua armata, che si può suddividere in quattro fasi:

(1) prima guerra mondiale (1914-18)
(2) primo dopoguerra (1918-39)
(3) seconda guerra mondiale (1939-45)
(4) secondo dopoguerra o guerra fredda (1945-89)

In sintesi tali fasi comprendono i seguenti avvenimenti.
(1)Guerra tra Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia, cui si aggiungono più tardi Stati Uniti, Italia, Romania e Grecia) e Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia, Bulgaria), che vengono sconfitti, mentre una rivoluzione abbatte l’impero russo
(2) Isolamento e boicottaggio della Germania in quanto potenza sconfitta e dell’URSS in quanto stato socialista; contrapposizione a quest’ultima da parte di Gran Bretagna a Francia mentre gli Stati Uniti si ritirano dalla scena europea volgendo l’attenzione agli affari asiatici, in competizione con il Giappone.
(3) Guerra tra Alleati e Comintern da una parte e Asse, allargato al Giappone, dall’altra, che vede la sconfitta dell’Asse.
(4) Rovesciamento delle alleanze: in Europa conflitto indiretto tra NATO, cui aderisce la Germania occidentale, e Patto di Varsavia, che comprende la Germania orientale. In Asia rivoluzione cinese e conflitto tra USA e Giappone da una parte e Cina dall’altra.
Il conflitto mondiale termina con la resa, senza alcuno scontro sul campo, dell’URSS, che scioglie prima il Patto di Varsavia e poi se stessa come federazione di stati, frantumandosi in stati indipendenti. Tale cedimento è accompagnato dal passaggio all’economia di mercato, cioè di apertura al capitale internazionale, quindi al dollaro, e dall’adesione alla NATO di molti di questi stati. Stesso esito ha lo scontro in oriente, salvo che, malgrado la sua integrazione nel mercato mondiale, la Cina mantiene una struttura politica a partito unico ed una organizzazione economica da esso parzialmente controllata.

L’esito di tutta questa lunga e contradditoria vicenda è l’affermazione finale degli Stati Uniti come unica potenza a livello planetario, in cui il ruolo di alfiere e supremo garante del dominio capitalistico sul mondo si confonde con quello di unica superpotenza militare e finanziaria che persegue sotto quella veste un dominio imperialistico esteso a tutto il pianeta. Ma ciò che appare alla superficie ideologica del pensiero attuale è una immagine totalmente diversa, quella di una “comunità internazionale” di stati indipendenti e democratici, cioè un mondo libero e garante di questa condizione per ogni stato, comunità disposta quindi a intervenire quando sia necessario per ripristinare la libertà. Cioè ai fatti viene sovrapposta una visione apologetica della realtà sociale attuale che a livello di rapporti internazionali trova la sua sanzione in questa visione mitologica del mondo. In realtà lo stato di cose attuale è il risultato della vittoria nella pluridecennale guerra planetaria del secolo scorso, combattuta tra determinati gruppi di potere, economici e politici, cioè finanziari e nazionali che sono così riusciti ha imporre il loro dominio sul mondo. Il mito del conflitto mondiale come guerra di liberazione dai totalitarismi fascisti e comunisti è parte importante di questo dominio, se non lo strumento principale della sua nascita a perpetuazione. Per vanificare questo dominio è quindi necessario innanzitutto demistificare tale mito apologetico, forse il più complesso e radicato che sia mai stato costruito da un gruppo sociale e una nazione dominanti, paragonoabile solo ad una ideologia religiosa. Compito arduo di cui la sinistra rivoluzionaria deve farsi carico e che finora non si è nemmeno iniziato ad affrontare, se non in gruppi ristretti e isolati, in quanto anche la teoria rivoluzionaria non è riuscita se non in misura assolutamente inadeguata a svincolarsi dal discorso apologetico che ha avuto finora corso riguardo il ruolo, i fini e i contenuti della politica perseguita dal capitalismo nella politica internazionale nell’ultimo secolo.

La dinamica dei rapporti internazionali

Come è sempre accaduto nella storia i vincitori danno della guerra che li ha visti tali una rappresentazione morale, quindi universalistica, in cui essi costituiscono le eterne forze del bene, qui designato con il termine democrazia, mentre gli avversari sconfitti sono descritti come l’incarnazione del male, qui denominato totalitarismo. Quale sia il contenuto di tale rappresentazione e che cosa corrisponda praticamente ad essa, in generale non viene chiarito, preferendo conferire ai termini uno stigma morale e quindi caricarli di un forte contenuto emotivo, banalizzandoli e trasformandoli in “aree sensibili”, che scatenano tempeste emozionali quando opportunamente stimolate, da utilizzare a volontà. Questo è il meccanismo psicologico dell’ideologia e se si vuole andare oltre queste ovvietà emotive, che ad un tempo nascondono e svelano la realtà, occorre considerare la base materiale che costituisce il fondamento reale degli avvenimenti storici.
Per quanto concerne la politica internazionale il principio fondamentale che la spiega è che le guerre sono la prosecuzione con altri mezzi delle lotte economiche tra potentati capitalistici e che gli stati sono solo gli strumenti mediante i quali sono condotti tali conflitti. Qui la legge della concorrenza, cioè dell’opposizione tra interessi economici, domina al suo livello più elevato. Ma non è questo l’unico tipo di conflitto che si presenta sulla scena, in quanto oltre alla concorrenza tra capitalisti vi è quella tra proletari e più importante ancora quella tra capitalisti e proletari, cioè la lotta di classe fondamentale. In generale sul piano dei rapporti internazionali il ruolo di tali conflitti resta secondario in quanto la lotta di classe si svolge all’interno degli stati, che sono sotto il potere della borghesia. Ma in un’epoca rivoluzionaria possono apparire stati, se non proletari almeno anticapitalisti, la cui esistenza complica notevolmente la dinamica dei rapporti internzionali. La lotta di classe da una parte condiziona dal loro interno la politica internazionale degli stati capitalisti, mentre pone gli stati socialisti come loro nemici irriducibili. Ma questi sono a loro volta condizionati dal contesto globale in cui agiscono, quello capitalistico, cioè il mercato mondiale. Quindi da un lato si combattono guerre imperialiste, in cui potentati capitalistici nazionali ed internazionali si scontrano per impossessarsi di mercati e materie prime, conflitti in cui sono coinvolti anche stati socialisti che però qui agiscono, e devono agire, come stati borghesi. Dall’altra si hanno conflitti classisti, nei quali sono in gioco, a livello internazionale, i rapporti sociali tra borghesia e proletariato. Qui tuttavia gli stati socialisti sono tendenzialmente internazionalisti, quelli borghesi inevitabilmente nazionalisti.
L’irruzione della lotta di classe nei rapporti internazionali spiega l’ambiguità e le contraddizioni che dominano tali rapporti nel corso del conflitto mondiale. E’ quanto è accaduto nel secolo scorso, quando come risultato della rivoluzione russa e del colpo di mano bolscevico noto come rivoluzione d’ottobre, nacque il primo stato socialista della storia. Avvenimento questo che innesca una reazione a catena che porta alla creazione di una molteplicità di movimenti rivoluzionari, soprattutto nel mondo coloniale, e alla formazione dopo la seconda guerra mondiale di uno schieramento di stati socialisti, non compatto ma contrapposto a quello capitalista.
La duplicità del carattere della competizione tra stati produce rapporti molto complessi, dove gli schieramenti sono ambigui e mutano repentinamente e dove i conflitti sociali interni sono collegati strettamente ai conflitti imperialistici esterni, e spesso rappresentano la forma assunta dalle guerre internazionali, cioè quella di guerra indiretta combattuta appoggiando fazioni opposte in guerre civili. Tale ambivalenza rende difficile una comprensione delle reali motivazioni che spingono gli stati a compiere determinate scelte e quindi la reale dinamica degli avvenimenti storici nel mondo capitalista. Comunque, poichè le motivazioni sociali, cioè quelle relative ai rapporti di produzione, sono nel lungo periodo determinanti, si può assumere come criterio interpretativo che gli interessi di classe hanno la priorità sulle rivalità interne alla classe, quindi che gli interessi imperialistici sono tendenzialmente subordinati a quelli di classe. Sebbene rimanga vero che pur di fare profitto il capitale è disposto a vendere al boia la corda con cui sarà impiccato. Tale complessità di cause distingue propriamente il conflitto mondiale che ha segnato il novecento.

La prima guerra mondiale

La prima fase, la guerra del 1914-18, inizia come guerra imperialistica classica. Alle sue origini sta la seconda rivoluzione industriale, che vede farsi avanti sul mercato mondiale due nuove potenze, la Germania e gli Stati Uniti, il cui sviluppo rende necessario, e permette, un ampliamento delle loro sfere di influenza economica e politica, ponendosi così in competizione con Gran Bretagna e Francia, possessori di vasti imperi coloniali acquisiti all’epoca della manifattura e della prima rivoluzione industriale. Mentre scoppiano le ostilità tra Intesa e Imperi Centrali gli Stati Uniti e l’Italia si dichiarano inizialmente neutrali. Si manifesta il noto isolazionismo che ha sempre caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti, ma si tratta di una delle mistificazioni comprese nell’ideologia americana, perché maschera una politica espansionistica da sempre perseguita prima sul continente nordamericano, poi nel Sudamerica, quindi nel Pacifico ed in Asia: In realtà sono interessati in quel momento solo al controllo della loro area di espansione. Qui occorre sottolineare che tale espansionismo inizia molto precocemente, in continuità con la guerra di indipendenza, prima nel Nordamerica contro le vecchie potenze coloniali, quali la Francia, con l’acquisto della Louisiana (1803); la Gran Bretagna (seconda guerra coloniale per il Canada, 1812-14), terminata con un nulla di fatto; la Spagna, con l’acquisto della Florida (1819). Poi si arriva alla proclamazione del protettorato su tutto il Sudamerica con la dottina di Monroe (1823), e successivamente: il trattato dell’Oregon (1846) con la Gran Bretagna, che porta all’acquisizione del Nord-Ovest e definisce il confine con il Canada; la guerra del Texas contro il Messico (1846-48), che porta alla conquista di tutto il Sud-Ovest, che fissa il confine meridionale sul Rio Grande; l’acquisto dalla Russia dell’Alaska (1867); poi un’altra guerra contro la Spagna (1898), che porta all’acquisizione delle Filippine, di Portorico e all’egemonia nell’Oceano Pacifico.
Tuttavia in ultimo gli Stati Uniti decidono di intervenire a fianco dell’Intesa, dando un contributo determinante alla vittoria della coalizione. Ma il motivo che li spinge a tale intervento sta nel fatto che ereditano la tradizionale politica della Gran Bretagna (“lo splendido isolamento”), politica volta ad impedire che sul continente europeo si costituisca una potenza egemone, capace di superarne il frazionamento politico. Questo è proprio l’intendimento della Germania, risoluta a trovare il proprio “Lebensraum” nell’Europa orientale. L’intervento degli Stati Uniti per quanto tardivo, dopo la defezione della Russia diviene decisivo, facendo inclinare la bilancia dal lato dell’Intesa e scongiurando così il pericolo di un’Europa continentale unita e schierata contro le potenze anglosassoni.
Sulla sponda della guerra di classe la prima guerra mondiale da una parte registra una capitolazione dell’internazionalismo proletario, con la disponibilità dei partiti socialdemocratici dei paesi belligeranti a votare a favore dei crediti di guerra. Ne risulta un massacro senza precedenti, una strage in cui proletari in divisa si trovano a sparare gli uni contro gli altri. Ma dall’altra si preparano le condizioni per la deflagrazione di un grande movimento rivoluzionario. Infatti nelle trincee si moltiplicano gli ammutinamenti, cui gli ufficiali borghesi rispondono con decimazioni di massa. Nel 1917 ciò si verifica sempre più su tutti i fronti nei due schieramenti, soprattutto quello francese. Si è vicini alla fine della guerra per ribellione delle truppe in tutti gli eserciti. Ciò avviene effettivamente sul fronte orientale dove i soldati russi si rifutano di combattere e la ribellione si diffonde fino a Pietroburgo determinando la caduta dello zarismo prima e quella della repubblica borghese poi. Il bolscevismo conquista il potere soprattutto ponendosi come garante della fine della guerra. Lo stesso sviluppo minaccia di prodursi in Italia dopo Caporetto, ma alla fine prevalgono più che gli appelli patriottici le decimazioni. Questo sviluppo della guerra in movimento rivoluzionario si determina nuovamente al fronte occidentale con il crollo dell’esercito tedesco, che è seguito immediatamente dalla rivoluzione tedesca dei consigli operai, però frenata e riassorbita in breve tempo nel moderatismo del partito socialdemocratico portato al potere dalla rivolta stessa.
La Russia sovietica si pone inizialmente in una prospettiva internazionalista, confidando che l’esempio russo possa innescare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo e soprattutto nei paesi sviluppati, segnatamente in Germania. Ma tale speranza si rivela illusoria, e dopo il tramonto di tale prospettiva, dopo il trattamento da potenza sconfitta ricevuto a Versailles, dopo il pericolo di annientamento corso nella guerra civile suscitata dalle potenze borghesi e l’isolamento che ne seguì, l’URSS si trovò nella necessità di ripiegare su una politica di potenza, subordinando i movimenti rivoluzionari agli interessi dell’URSS in quanto potenza imperialista, cioè proclamando “la rivoluzione in un paese solo”, ciò che fece Stalin.

Il primo dopoguerra

Quanto alla Francia e alla Gran Bretagna, non appena si manifestò un movimento rivoluzionario generalizzato, vittorioso in un grande stato come la Russia, inizialmente abbandonano la politica di potenza, considerando prioritaria l’esigenza di creare un baluardo contro quella che minacciava si essere una rivoluzione mondiale e la fine del capitalismo. Infatti, prima guardano con simpatia alla nascita del fascismo in Italia, e dopo l’avvento del nazismo in Germania abbandonano la punitiva politica di Versailles verso gli sconfitti cancellando le riparazioni, non reagendo al rifiuto tedesco di mantenere la smilitarizzazione della Renania e le limitazioni agli armamenti, ciò che equivaleva all’annullamento del trattato di pace. Infine vi sarà l’accettazione dell’annessione di Austria e Cecoslovacchia. Lo spirito di Monaco è nient’altro che l’intento di rafforzare la cintura di sicurezza creata intorno all’URSS, opponendogli non il pulviscolo di staterelli creato da Versailles in Europa orientale, ma un avversario di pari forza.
La guerra civile in Spagna si inserisce coerentemente in tale quadro. La neutralità degli stati borghesi democratici rende determinante per la sconfitta della rivoluzione l’aiuto massiccio fornito a Franco dalle potenze borghesi fasciste, mentre poco possono fare il Fronte popolare in Francia per la durissima opposizione interna della borghesia e l’URSS per le difficoltà logistiche. Il fatto che la Francia si trovi circondata da tre lati, - Reno, Alpi e Pirenei, - dalle potenze fasciste non varrà a indurre la borghesia francese a intervenire in soccorso della repubblica spagnola. Qui inizia a delinearsi, anticipandolo, lo schieramento delle grandi potenze quello che diverrà evidente a Monaco.
Gli Stati Uniti, dopo aver ristabilito l’equilibrio in Europa con la sconfitta del II Reich, nel primo dopoguerra si ritirano nel consueto isolamento, rifiutando il coinvolgimento negli affari europei se non per opporsi all’egemonia di qualche stato europeo, cioè per fomentare il frazionamento dell’Europa in potenze rivali, limitandosi a conservare la loro area di influenza, essenzialmente extra-europea, cioè l’emisfero occidentale e l’estremo oriente. In tal modo agisce da grande potenza, ciò che significa che il pericolo di una rivoluzione mondiale viene considerato remoto. Mentre il distacco dalle vicende europee significa trarre vantaggio dalle rivalità che dividono le potenze europee, badando innanzitutto che nessuna prevalga sulle altre, mirando poi in prospettiva a minare i loro imperi coloniali e subentrare loro come superpotenza imperiale, obbiettivo realizzato con la seconda guerra mondiale. Tale politica viene detta isolazionista ma si tratta, come accade per ogni categoria dell’ideologia americana, di un termine fuorviante in quanto non designa un reale disinteresse per il proprio ruolo internazionale come viene suggerito dalla parola, ma semplicemente, protetti dall’isolamento geografico, giocare un ruolo opportunista negli affari delle grandi potenze europee rispetto alle quali si trova fino al conflitto mondiale in posizione di inferiorità rispetto ai criteri dell’epoca, cioè in rapporto al controllo politico di territori extrametropolitani. Solo il contributo decisivo alla vittoria sulla Germania nella prima guerra mondiale lancia gli Stati Uniti come grande potenza, mentre prima lo era solo sul piano economico, e anche ora lo è solo parzialmente perché Francia e Gran Bretagna, per quanto indebolite da una vittoria che si può qualificare di Pirro, mantengono ed additittura ampliano i loro domini coloniali.

La seconda guerra mondiale

Infine la Germania rifiuta l’alleanza internazionale classista rompendo con il fronte anticomintern esistito di fatto nella guerra civile spagnola e implicitamente riproposto da Gran Bretagna e Francia a Monaco, schierandosi con l’URSS mediante il patto Molotov-Ribbentrop, vero fulmine a ciel sereno, che diede inizio alla seconda guerra mondiale. Quindi la Germania agisce soprattutto da grande potenza, considerando su questo piano la Francia e la Gran Bretagna come gli avversari principali e l’URSS quello secondario, da liquidare in un secondo momento. L’URSS trovandosi nuovamente isolata deve scegliere il male minore, sfruttando le rivalità imperialistiche degli avversari, sebbene questo significhi entrare nella logica della politica di potenza
. Gli sviluppi successivi mostreranno come questo calcolo fosse errato. L’aggressione della Germania nazista all’URSS ripropone la schema della guerra civile spagnola e di Monaco, questa volta da parte della Germania, che in realtà non ha mai abbandonato l’idea di un’intesa con la Gran Bretagna sulla base di un riconoscimento degli interessi della Germania nell’oriente europeo, cioè dello storico “Drang nacht Osten”, e del comune interesse alla distruzione dell’Unione Sovietica. Calcolo questo fondato, poiché Gran Bretagna e Stati Uniti, nonostante l’avventata dichiarazione di guerra della Germania a questi ultimi, si porranno in posizione attendista fino a quando l’esito dello scontro tra Germania e Unione Sovietica non apparirà deciso. Quando le sorti della guerra volgeranno a favore dell’URSS, sarà giocoforza per Gran Bretagna e Stati Uniti, ritornare decisamente alla politica di potenza.
Infatti gli Stati Uniti, che dopo la vittoria nella prima guerra mondiale si erano ritirati nel consueto isolazionismo, lo mantengono anche dopo Pearl Harbour con il proposito di ritardare il più possibile l’intervento in Europa, lasciando che Germania e Unione Sovietica si scannassero a vicenda, per giungere quindi a raccogliere una vittoria già preparata da altri, cioè dall’URSS. E’ ciò che avviene nel 1942, quando gli Stati Uniti dichiararono guerra solo al Giappone, mentre prima di Pearl Harbour si limitavano a trarre vantaggi dallo scontro europeo in atto. Vantaggi politici quando affittarono basi britannice nei Caraibi in cambio di qualche vecchio cacciatorpediniere. Vantaggi economici, con la Legge affitti e prestiti, con la quale gli Stati Uniti divennero “l’arsenale d’Europa”, e con il pagamento in oro degli aiuti (memori della mancata restituzione dei prestiti di guerra del conflitto precedente), quindi con l’accaparramento delle riserve auree mondiali, che permetterà agli Stati Uniti di imporre alle potenze europee quale prezzo della sconfitta dell’Asse l’imposizione del “gold dollar standard”, cioè dell’equiparazione del dollaro all’oro come riserva monetaria, cui seguirà dal 1971 il “dollar standard”, cioè il dollaro inconvertibile come unica moneta di riserva mondiale. Altro prezzo pagato dalle potenze europee sarà questa volta la perdita delle colonie, i cui movimenti indipendentisti, benchè prendessero a modello l’economia pianificata sovietica, vennero tuttavia, sebbene con qualche perplessità, sostenuti anche dagli Stati Uniti, valutandoli correttamente come movimenti essenzialmente borghesi, che puntavano ad uno sviluppo economico indipendente che gli permettesse di uscire dal sottosviluppo cui li condannava la divisione internazionale del lavoro dell’epoca coloniale, come economia e come classe. In ogni caso creavano un vuoto di potere che gli Stati Uniti erano certi, nonostante la concorrenza dell’URSS con la quale si trovavano a far fronte comune contro la potenze coloniali, di poter in prospettiva volgere a proprio vantaggio, calcolo che si è rivelato assolutamente esatto.

Il secondo dopoguerra: la guerra fredda

Questa contraddizione tra posizione classista e posizione imperialista, tipica della politica di potenza, appare sottotraccia nel corso della seconda guerra mondiale, ma questa dopo il patto Molotov-Ribbentrop ebbe un carattere essenzialmente imperialista, mentre l’aspetto classista, rimasto in secondo piano per tutto il conflitto, riappare potentemente nella guerra fredda. Infatti la sconfitta dell’Asse rimescola tutte le carte dando inizio alla guerra fredda, dove però si intrecciano diversi conflitti, rendendo lo schieramento delle grandi potenze contradditorio. Inizialmente da una parte USA e URSS continuano a fare fronte comune contro le potenze colonialiste, soprattutto in Medio Oriente, mentre dall’altra si verifica lentamente un significativo ribaltamento delle alleanze. La Germania sconfitta e divisa si schiera per la parte occidentale, la maggiore, con i vincitori contro l’URSS, ciò che aveva già tentato di fare la Germania nazista nel corso della guerra giocando la carta della posizione classista. L’URSS a sua volta, occupata l’Europa orientale e la penisola balcanica, formato un blocco egemone sul continente comprendente anche la Germania Orientale, si schiera in opposizione agli ex alleati in una guerra di classe.
Ma se la guerra fredda inizia come guerra prevalentamente di classe, ben presto si trasformerà in guerra imperialista. La guerra fredda presenta due elementi essenziali, un carattere classista e la crescente importanza delle armi di distruzione di massa, già presenti nella prima guerra mondiale, quali i gas venefici, mai usati nella seconda. Ma dato il suo carattere di classe e la minaccia reciproca di distruzione totale, lo scontro non può essere diretto e solo militare. Quindi si svolge nella forma di guerre locali di carattere rivoluzionario, cioè di formazioni partigiane contro truppe governative, in conflitti che assumono l’apparenza di guerre civili, dove però i due blocchi intervengono con l’invio di armi ed anche di volontari, i “consiglieri”, rivelando quindi la realtà del conflitto, quella di guerra internazionale imperialista.
Quindi nella guerra fredda si sovrappongono motivi imperialisti e classisti. All’inizio sono entrambi presenti, poi rapidamente prevale il motivo classista nella forma di uno scontro tra gli Stati Uniti e lo schieramento che li sostiene, cioè il Patto Atlantico (NATO), e l’URSS e il suo blocco, cioè il patto di Varsavia. Ma questa è solo l’apparenza perché dopo la morte di Stalin emerge quella che è la vera natura del conflitto, quella imperialista, già latente nella politica estera staliniana, e che emerge con la politica kruscioviana della “coesistenza pacifica”. Essa corrisponde ad un accordo implicito di spartizione. del mondo in due blocchi e distinte sfere di influenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, spartizione già decretata a Yalta e da allora in poi rigidamente rispettata, soprattutto in Europa, area nevralgica dello scontro. Questo risultò evidente con la rivoluzione ungherese e la contemporanea crisi di Suez (1956), dove il non intervento delle due superpotenze nelle sfere di influenza dell’avversario sancì il riconoscimento ufficiale della spartizione e la messa fuori gioco definitiva di Francia e Gran Bretagna.
Dopo di allora la politica estera dell’URSS, nonostante qualche temporaneo mutamento di rotta, non fece che accentuare sempre più il suo carattere imperialista. La causa di tale evoluzione sta nel successo dell’economia pianificata e nel parallelo consolidarsi della burocrazia che la gestiva come classe dominante nell’URSS, classe che non aveva più interesse a diffondere nel mondo istanze rivoluzionarie e ad uno scontro su questo piano con lo schieramento internazionale borghese. Al contrario, il suo interesse stava nell’accordarsi con esso, ciò che la porterà successivamente a confluirvi. Tale processo di decomposizione della rivoluzione russa si spiega, in ultima analisi, con l’immaturità delle condizioni storiche in cui si è sviluppata, che ne hanno determinato la successiva involuzione. Questa involuzione è testimoniata dalla parallela trasformazione della teoria rivoluzionaria, il materialismo storico, in senso determinista, mutamento che ne fa una teoria gradualista, il Diamat, che diviene l’ideologia ufficiale della burocrazia. Tale trasformazione della guerra di classe in guerra imperialista rende sempre più la guerra fredda strumentale alla politica interna di entrambi gli schieramenti, e realmente praticata come guerra di classe solo da un capitalismo incerto di sé. Tutto ciò non fece che accelerare sempre più anche il mutamento del carattere sociale dell’URSS, fino a portare alla sua completa trasformazione in stato capitalista, insieme a tutti gli altri paesi del patto di Varsavia. Tale evento ha creato un vuoto politico ed economico che è stato prontamente e spregiudicatamente occupato dagli Stati Uniti (e dai suoi alleati), quale unica superpotenza rimasta in campo. Ciò è avvenuto non tanto per forza propria degli Stati Uniti, come si è potuto constatare in seguito, dato che la crisi ed il crollo dell’Unione Sovietica ha coinciso con quella del suo avversario storico, ma per la debolezza dell’Unione Sovietica, che corrisponde ad una debolezza e un sottosviluppo del proletariato del blocco socialista, che non è riuscito ad approfittare della crisi del socialismo burocratico per porre la prospettiva del comunismo, ma si è trovato soggiogato, né poteva essere diversamente, dalle suggestioni di un capitalismo mai prima sperimentato.
Lo stesso rovesciamento delle alleanze si è verifica inizialmente nell’altro grande teatro dello scontro, il Pacifico. La Cina, precedentemente invasa dal Giappone e quindi schierata con gli Stati Uniti, dopo la sconfitta del primo e una rivoluzione comunista vittoriosa, si trova a scontrarsi con gli Stati Uniti e nuovamente contro il Giappone, ora alleato con gli USA. Come in Europa questo mutamento negli schieramenti è motivato da un cambiamento della natura del conflitto, che durante la seconda guerra mondiale è di carattere imperialista, anche se gli Stati Uniti anche qui agitano il vessillo della democrazia contro il totalitarismo dell’impero nipponico, ma nel dopoguerra diviene scontro prevalentemente classista, essenzialmente volto a scongiurare il contagio cinese in Asia. Infatti essendo la Cina divenuta uno stato socialista, si trova a combattere una guerra di classe contro le due potenze dell’Estremo Oriente. Ma ben presto l’involuzione della rivoluzione cinese muterà la posizione internazionalista della Cina in politica di potenza. Infatti dopo essere intervenuta pesantemente nella guerra di Corea in favore della Corea del Nord, rischiando anche una guerra nucleare, non interverrà nella guerra del VietNam, lasciandone l’onere all’URSS, e ponendosi anzi in competizione con essa. Le cause di tale trasformazione della Cina rivoluzionaria sono analoghe a quelle che hanno determinato quella dell’URSS, cioè il carattere di rivoluzione borghese di un mutamento sociale operato da una borghesia che ha bisogno di una rivoluzione agraria antifeudale per dare avvio ad una rivoluzione industriale ed al proprio sviluppo come classe, cioè all’accumulazione di capitale attravarso una modernizzazione dell’agricoltura. Ciò non cancella il fatto che gli Stati Uniti considerano tale modernizzazione un pericolo, al punto da attaccarla indirettamente ai suoi confini ben due volte, prima in Corea poi in VietNam. Ma anche la Cina cede di fronte alle pressioni esterne. A differenza dell’URSS il cedimento è solo economico, cioè concerne l’abbandono del sistema economico pianificato in favore di un sistema misto, cioè di un ibrido “socialismo di mercato”, mentre politicamente la burocrazia di partito mantiene saldamente il potere e l’unità territoriale dello stato. Ma il risultato è il medesimo, cioè campo libero all’imperialismo degli Stati Uniti, che può dominare incontrastato non solo in Europa ma anche in oriente, seconda area strategica del panorama mondiale.

Il mito della liberazione

L’egemonia sul mondo attuale da parte degli Stati Uniti è un dato di fatto indiscutibile, ma esso non dappertutto viene percepita allo stesso modo. Mentre il mondo sottosviluppato ed ex coloniale ne è ben consapevole, sia nelle clssi dirigenti che in quelle popolari, paradossalmente sembra che nel mondo sviluppato tale realtà sfugga generalmente alla coscienza degli individui. Tale differente percezione deriva dal modo in cui gli Stati Uniti sono pervenuti in tale posizione e dal modo in cui tale evento è stato presentato al mondo, cioè da come l’immagine di tale realtà è stata deformata e soprattutto dal modo in cui tale manipolazione è stata recepita in queste due aree del mondo.
Con la fine del conflitto mondiale che ha visto il loro trionfo, dovunque sono arrivati gli Stati Uniti si sono presentati come i liberatori: degli europei dal fascismo, dei popoli ad essi soggetti dal colonialismo. Cioè si sono posti come una nazione che è uscita dal suo volontario isolamento solo perché aggredita o minacciata dall’aggressività altrui, ma più ancora è scesa in guerra solo per combattere il fascismo e liberare il mondo da tale peste. E che ha appoggiato i movimenti di liberazione nelle colonie solo in quanto, essendo essa stessa una ex colonia e divenuta nazione libera in seguito ad una guerra di indipendenza, non può che sostenere la fine del colonialismo. La verità, al di là di questa immagine di aiuto, militare ed economico, disinteressatamente elargito a tutto il mondo, è un’altra. Semplicemente gli Stati Uniti sono una grande potenza e come ogni grande potenza conducono una politica estera guidata dalla tutela dei propri interessi economici, ed essendo una potenza capitalista in realtà mira alla tutela degli interessi di un ristretto numero di multinazionali che in realtà ne controllano l’economia e quindi l’apparato statale. Così è sempre stato nella politica internazionale di potenza e così è anche per gli Stati Uniti, i quali si distinguono dalle altre potenze per due caratteristiche: per il fatto di essere l’unica superpotenza sulla scena; e per l’attenzione particolare rivolta alla propria immagine sia all’interno che presso gli altri popoli. E’ l’immagine di chi è sempre dalla parte della ragione, della giustizia e della democrazia, cioè i classici ideali illuministici della borghesia, e si sente investito della missione di diffondere tali ideali in tutto il mondo. In realtà ciò che viene applicato con estrema coerenza è un principio da sempre utilizzato da ogni potere costituito particolare, cioè quel principio di prassi politica secondo il quale l’interesse particolare non appare, né deve mai per quanto possibile apparire, come tale, ma è presentato, e lo deve, come interesse comune, o meglio ancora come valore universale. L’ideologia americana applicata alla politica estera si distingue proprio per questo, per evitare accuratamente ogni dichiarazione che metta allo scoperto il suo macchiavellismo, cioè il cinico perseguimento dei propri egoistici interessi, anche quando si tratta di ricattare o minacciare l’avversario, tendendo sempre ad apparire non come aggressore ma come vittima delle prepotenze altrui. Ciò viene ottenuto operando nel discorso politico uno spregiudicato quanto rischioso rovesciamento della realtà dei fatti.
Questa operazione ha avuto un grande successo in Europa, dove è tuttora un discorso ormai entrato nel senso comune che gli Stati Uniti siano in Europa non per evidenti interessi imperialistici ma essenzialmente come liberatori dalla tirannide fascista. Per questo l’Europa deve essere eternamente grata agli Stati Uniti. Ma a questo, che è il fondamentale titolo di merito esibito dagli Stati Uniti, si aggiunge un altro atto di generosità disinteressata, che ancor più giustifica il fatto che gli americani, giunti in Europa nel 1943, con lo sbarco in Sicilia e successivamente nel 1944 con quello in Normandia, non si siano più ritirati. Ciò è connesso all’altro ruolo che gli americani si sono attribuiti, quello di “difensori” della democrazia, questa volta contro l’URSS. Ciò è posto come fatto di per sè evidente. Che si tratti di una vicenda complessa in cui si sono intrecciati interessi imperialistici e interessi di classe, nell’informazione di massa non vi è il minimo cenno, nemmeno nei dibattiti politici se non si risale all’epoca della guerra fredda, e qui solo come discorso di parte. Se si vuole trovarne qualche debole traccia occorre rivolgersi a testi specialistici di storia contemporanea. L’unica nozione chiara che ha libero corso, anche se implicita, è che l’Europa abbia verso gli Stati Uniti un debito di gratitudine inestinguibile, tanto quanto le riparazioni con cui veniva vessata la Germania nel primo dopoguerra, per cui l’Europa si trova non nella condizione di alleata, come viene preteso, ma di nemico sconfitto, compresi i vincitori, cioè Gran Bretagna e Francia, che in effetti sono stati cancellati dal novero delle potenze. Questo è stato il prezzo da pagare per l’Europa, cui si aggiunge la cessione di basi militari, che è la forma in cui gli Stati Uniti occupano l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, direttamente o tramite quell’alleanza ambigua costituita dalla NATO.
Ma ciò che è notevole nel rapporto tra Europa e Stati Uniti è che tale immagine di esso ha corso solo in Europa. In ogni altro luogo del mondo, cioè nei paesi sottosviluppati, la consapevolezza del ruolo imperialista degli Stati Uniti, anzi di principale potenza imperialista, è ben radicata in tutte le classi, ed è considerata fatto evidente, quanto lo è l’idea opposta nelle aree sviluppate. Cioè nelle aree sottosviluppate si è ben consapevoli della realtà del neocolonialismo, cioè del dominio militare e finanziario cui sono sottoposti, mentre in Europa manca la percezione del fatto che il neocolonialismo la riguarda direttamente e che essa è in rapporto agli Stati Uniti nella stessa condizione in cui i paesi ex coloniali sono in rapporto all’Europa. In tali paesi un discorso di critica all’antiamericanismo non verrebbe semplicemente compreso, tale la contraddizione in cui esso si porrebbe rispetto alla loro realtà concreta. Ciò anche nelle classi borghesi, in quanto verrebbe considerato non un discorso rivoluzionario, ma una semplice rivendicazione di indipendenza nazionale. Ciò è in effetti la valenza dell’antiamericanismo in quei paesi, mentre in Europa, in quanto area a capitalismo sviluppato, tale discorso si sovrappone alla prospettiva di superamento del capitalismo, essendo questa, cioè la guerra civile, l’unica via per liberarsi dalla tutela degli Stati Uniti, e viceversa.
Il movimento rivoluzionario storico si trova quindi in una situazione paradossale. Le aree sottosviluppate hanno una coscienza storica più elevata delle aree sviluppate, dove la falsa coscienza intorno alla loro condizione di dominati è spiegabile proprio come riluttanza a riconoscere una condizione che li rende simili a colonie. Viceversa la realtà materiale dello sviluppo economico, condizione fondamentale per la nascita di un movimento rivoluzionario in grado di porre realmente il superamento del capitalismo, questa realtà si trova dove è più alienata la coscienza. Ma tale contraddizione è solo apparente, in quanto la coscienza segue sempre in ritardo lo sviluppo materiale, mentre la coscienza pur radicale che appare in una società sottosviluppata è in verità una coscienza limitata, cioè si tratta di un radicalismo borghese, corrispondente all’esigenza di una rivoluzione borghese. Infatti in tutto il mondo sottosviluppato quella che si è affermata è una coscienza dello sviluppo capitalistico in condizioni arretrate, cioè nelle condizioni semifeudali corrispondenti ad una agricoltura arretrata. Ma è lo sviluppo stesso del capitale che pone le condizioni per uno sviluppo adeguato della coscienza in tali aree. Sono proprio i paesi di nuova industrializzazione, principalmente Russia, Cina, India, Brasile ed altri, che attualmente fanno da traino all’economia mondiale, quelli in cui la coscienza si sta evolvendo da quella di masse contadine e borghesia sottosviluppata, in quella proletaria matura, cioè comunista, ricongiungendosi con il prolatariato moderno del mondo sviluppato, sollecitandolo ad un superamento della falsa coscienza postcolonialista, permettendogli di liberarsi della acquiescenza e della fascinazione ipnotica dell’ideologia americana.

Valerio Bertello - 23 novembre 2009

no © www.marxoltremarx.it